Quello della difficoltà nei videogiochi è un argomento difficile, qualcuno direbbe impossibile o suicida. E se passassimo al casalingo?
Nel mondo dei videogiochi si creano a volte delle fazioni. Tra quelle più agguerrite ci sono le discussioni che riguardano la difficoltà a cui si dovrebbe giocare. Una schiera, per fortuna ridotta, di giocatori e giocatrici pensa che se non si finisce il gioco nella modalità più difficile in assoluto non si è nessuno.
Tante volte invece developer e publisher ricordano che l’importante è giocare, la difficoltà non conta. Alcuni titoli fanno della difficoltà estrema il proprio marchio di fabbrica, altri provano ad essere alla portata di tutti. E se la soluzione fosse una difficoltà nei videogiochi a misura di adulto con una vita?
La schermata iniziale di quasi qualunque esperienza videoludica permette di scegliere la difficoltà a cui giocare. Tradizione vuole che una volta che si è scelto un percorso lo si porta avanti fino alla fine. Ci sono però interessanti variazioni su questo tema. Tra gli esperimenti che vale la pena menzionare c’è quello della serie Yakuza in cui, se si prendono botte abbastanza spesso e non si riesce a superare un determinato nemico, appare un (umiliante) prompt che chiede se si vuole momentaneamente abbassare la difficoltà.
Molti altri titoli hanno adottato una strategia accomodante, per la quale è possibile cambiare in corsa, tornando al menù principale, la difficoltà che si sta sperimentando. La questione però che riguarda la difficoltà nei videogiochi è una questione che è estremamente soggettiva. Perché un videogioco può essere difficile per motivi che non rientrano in quelli preventivati dal developer.
Potrebbe per esempio essere difficile giocare perché manca un tasto pausa, o perché il team di sviluppo ha deciso che i salvataggi sono solo automatici o ai checkpoint. Qualcosa di snervante, soprattutto se la vita fuori dai videogiochi si mette di mezzo: cena, compiti da controllare, animale domestico a scelta che ha bisogno di coccole o generi di prima necessità, lavoro, spesa, piatti, bucato, una doccia per tornare presentabile all’universo.
L’idea che il videogiocatore o la videogiocatrice medi siano adolescenti il cui unico impegno è quello scolastico con una spruzzata di sport ha costruito alcune regole nella gestione della difficoltà. Ma chi gioca ai videogiochi non fa più solo parte (se mai questa cosa è successa) di una specifica demografia. Esistono videogiocatori che hanno cominciato adolescenti con il Commodore 64 e l’Amiga e che adesso, adulti che qualcuno riterrebbe quasi pronti per la pensione, sono ancora lì con il pad in mano o a picchiare sulla tastiera.
Non tutti i giochi devono essere pensati per il pubblico più vasto possibile ma sarebbe bello che la difficoltà fosse in parte rivista, soprattutto per quei titoli che possono effettivamente avere un appeal dal respiro più ampio. Da parte della community, poi, ci vorrebbe un cambio di prospettiva e una accettazione più serena del fatto che non siamo tutti uguali, non giochiamo tutti allo stesso modo e non per tutti il divertimento è uguale. Se così fosse saremmo tutti su un unico titolo.
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