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Diablo Immortal guadagna 24 milioni in 14 giorni: ma non eravate contro?

Torniamo a parlare di Diablo Immortal. Perché è successa una cosa che assolutamente, da un punto di vista puramente logico non ha senso: questo gioco che tanti hanno criticato perché si tratta di un titolo mobile palesemente pay-to-win in 15 giorni ha fatturato 24 milioni di dollari.

Per capire che ci sono cose che non riusciremo mai a capire basta ricordare che il nuovo capitolo mobile della saga infinita infernale di Blizzard è un free to play. Un gioco che si scarica, si apre e si gioca. Non ci sono abbonamenti, non che si vedano almeno, non ci sono chiavi da acquistare nè licenze da riscattare. Tutto l’apparato faraonico si regge sulle microtransazioni e sulle loot box.

Diablo Immortal guadagna 24 milioni in 14 giorni: ma non eravate contro? (foto Blizzard)

E a giudicare dai conti che i gestori di App Magic sono riusciti a fare possiamo stare qui a discutere di quanto sia orripilante il modello di business che c’è dietro questo free to play ma le persone continueranno a scaricarlo e tanti non ci vedranno neanche niente di male nel buttare la 5 euro o 10 euro per comprare qualche accessorio digitale per il loro eroe o la loro eroina che combatte il male rovente. Ma quindi insomma che ne parliamo a fare?

Diablo Immortal: 24 milioni di motivi per continuare a discuterne

Il fatto che in 15 giorni ci siano stati 5 milioni di download e oltre 20 milioni di dollari di guadagni è proprio quello che ci spinge di nuovo a parlare di Diablo Immortal. App Magic è un sito su cui è possibile tenere traccia di come si comportano le app pubblicate sui vari Store. Una lettura interessante per chi vuole magari sviluppare un nuovo prodotto e cerca di capire come si muove il pubblico.

Diablo Immortal guadagna 24 milioni in 14 giorni: ma non eravate contro? (foto: Blizzard)

Se dovessimo quindi fondare qui su due piedi un nuovo team di sviluppo e decidere quale tipologia di gioco andare a fare sicuramente faremo un gioco di ruolo Action mmo in 3D e con le microtransazioni.

I dati suddivisi per regione geografica rendono poi ancora di più l’idea di quanto il fenomeno Diablo sia radicato in alcune zone del globo. Perché quasi il 45% di quei famosi 24 milioni di dollari provengono da microtransazioni effettuate negli Stati Uniti, un altro 22% vengono dalla Corea del Sud un altro 8% dal Giappone e poi c’è un interessante 6% della Germania, un 3% del Canada è un non troppo ben distinto ulteriore 17% con tutti gli altri Paesi rimanenti. Paesi in cui, e questo vale la pena ricordarlo, non ci sono per esempio Belgio e Paesi Bassi che hanno decretato come troppo simili al gioco d’azzardo le loot box e quindi non hanno indirettamente permesso che Diablo Immortal potesse essere scaricato ufficialmente da account localizzati entro i propri confini.

Quello che ci preoccupa è in realtà che il sistema messo su da Blizzard dentro Diablo Immortal è effettivamente un sistema che rischio di mettere chi è magari un po’ più debole e con tendenze alla dipendenza in situazioni economicamente simili alle sabbie mobili. Basta leggere per esempio l’esperienza di Jez Corden di Windows Central che, ammettendo egli stesso di aver avuto in passato e di lottare ancora con problemi di dipendenza di varia natura, si è lentamente reso conto di come Diablo Immortal riesca a convincerti che alla fine non c’è niente di male nello spendere quei pochi spiccioli per magari acquistare il Battle Pass oppure un Crest.

Tanti di quelli che poi hanno effettivamente scaricato Diablo e lo hanno giocato e lo stanno giocando vedono un titolo solido e con un sistema di combattimento veramente soddisfacente che funziona bene sia su PC sia su dispositivi mobili. Quello che però c’è dietro, visibile purtroppo solo ad un occhio allenato, è però un sistema che non costringe ma cerca in tutti i modi di convincere i giocatori a spendere facendo leva su tutta una serie di meccanismi mentali che possono risultare pericolosissimi.

Come dice bene Corden, Diablo Immortal è un casinò travestito che aspetta solo che le persone entrino effettivamente per accendere le luci al neon. Si tratta di un modello di business rischioso, per i giocatori ovviamente, in cui le lucine e le paillettes sono traslate in una serie di elementi artistici di indubbio valore che però, come le esche di certi pesci di profondità, servono solo ad avvicinare più sprovveduti possibile alle fauci della bestia. Se questo è il futuro dei videogiochi, fermate tutto perché noi scendiamo qui.

Valeria Poropat

Sono Valeria e adoro la tecnologia e la parola scritta. Dopo la maturità classica ho studiato lingue presso La Sapienza di Roma e sono specializzata in traduzione e transcreazione. A un anno e mezzo ho incontrato un Commdore 64 e a otto anni ho deciso che avrei fatto la giornalista. Alla fine, ho trovato il modo di mettere tutto insieme e ho scoperto nel mondo dell'informazione tech il mio ambiente naturale. Mi occupo di tutto ciò che è tecnologia, con una predilezione per i videogiochi e le innovazioni che sono in grado di migliorarci la vita.

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