Uno studio effettuato dall’organizzazione no-profit statunitense Take This si é concentrato su 300 gamers, sulle loro abitudini e sui loro comportamenti individuali e sociali. Ciò che é emerso é che la propensione a formulare idee razziste e sessiste risulta in loro più spiccata rispetto ai non appassionati di videogames. Scopriamo lo studio ed il perché dei risultati.
L’organizzazione no-profit statunitense Take This, con sede nella città di Kirkland nello stato di Washington e specializzata in indagini relative alla salute mentale, ha recentemente condotto una ricerca per stabilire le differenze comportamentali più significative tra gli appassionati e giocatori assidui di videogames, da un lato, e, dall’altro, chi invece non gioca.
Ciò che é emerso con tutta evidenza secondo l’organizzazione é che i gamers tendano a formulare idee e pensieri di tipo discriminatorio, soprattutto in ambito di razzismo e di sessismo, con una propensione assai più spiccata rispetto a chi non gioca. E la causa sarebbe da ricercare non tanto nelle influenze che un determinato videogame suscita nei giocatori, quanto più nelle influenze esercitate dalle comunità che si formano “attorno” a quel determinato videogioco.
“Le comunità di giocatori – ha dichiarato la direttrice della ricerca, Rachel Kowert – rappresentano un’arma a doppio taglio. Da un lato, possono fornire un senso di connessione e scopo a persone che soffrono di solitudine ed insicurezza. Dall’altra, possono esporre i giocatori a discorsi di odio e tossicità sociale che possono aumentare la loro suscettibilità alla propaganda estremista”.
La Kowert ed il gruppo di ricerca da lei diretto hanno analizzato anche in che modo si esprimano nei gamers due differenti tipologie di identità: la prima relativa al nostro carattere e comportamento individuale, in dinamiche che afferiscono alla sfera della solitudine; la seconda, al nostro carattere e comportamento sociale, relativa a dinamiche che afferiscono alla dimensione di gruppo e di inter-relazione con altri individui.
“Il problema – ha riportato la Kowert – emerge quando l’identità sociale si fonde con quella individuale, perdendo il senso critico che veicola le nostre scelte”. Secondo il team di ricerca, infatti, le scelte adottate dall’individuo per “aderire” a quelle che gli appaiono le aspettative della comunità che sta frequentando, non sono frutto di considerazioni personali, bensì di influenze “ambientali” che ritiene debbano essere accettate e fatte proprie per non essere escluso dal gruppo.
Dallo studio emerge, tuttavia, che anche il tipo di videogame possa determinare maggiori o minori probabilità di sviluppare pensieri ed atteggiamenti discriminatori: dai test effettuati sui gamers, infatti, é risultato che gli appassionati di Call of Duty abbiano maggiori possibilità di manifestare razzismo e misoginia rispetto agli appassionati di Minecraft.
E’ il caso dunque di allarmarsi? Senz’altro essere al corrente dei rischi che un’attività che svolgiamo, qualsiasi essa sia, introduce nelle nostre vite, riduce la possibilità che questi si manifestino, diventando pericoli concreti: conoscendoli, infatti, possiamo prevederli, prevenirli e, all’occorrenza, correggerli. Senza dubbio ciò vale anche per il gaming, soprattutto per i giocatori di giovane età, in fase di sviluppo e di formazione del proprio carattere, da tutelare e proteggere con la massima accortezza, anche con il supporto di esperti del settore. Per maggiori dettagli sullo studio, a questo link é possibile trovare l’articolo completo.
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