L’allerta é scattata lo scorso Gennaio, quando l’MIT Technology Review ha ricevuto 15 scatti effettuati da un aspirapolvere, diffusi poi sul web, in gruppi privati attivi su alcuni social media. E Roomba, l’aspirapolvere robotico dell’azienda iRobot acquistata da Amazon per 1,7 miliardi di dollari, scatta una foto in cui compare una donna nella sua intimità, seduta sul water, che poi viene pubblicata su Facebook. La domanda sorge spontanea, vero?
Già: perché? Come può succedere che un aspirapolvere robotico, acquistato per semplificarci la vita nelle pulizie domestiche, magari anche a seguito dei dovuti sacrifici per poterselo permettere, scatti foto della nostra abitazione? E che poi queste – tra cui una con la proprietaria che, nella sua intimità, ignara di tutto ciò che sta avvenendo, si trova nel suo bagno di casa – finiscano in rete? Su Facebook?!
Ed ecco il motivo. Queste macchine fotografano costantemente l’ambiente entro cui vengono adoperate, lo sapevate? (Nemmeno io, e non siamo in pochi). A cosa servono queste foto? A migliorare le prestazioni dei robottini e ad ottimizzare sempre di più il loro apprendimento automatico, al fine di renderli sempre più “intelligenti” e sofisticati e di “personalizzare” le pulizie in base all’organizzazione degli ambienti volumetrici.
Quindi macinano dati su dati, per comprenderli sempre più approfonditamente, interpretarli ed infine sfruttarli per eseguire al meglio, e sempre meglio, le funzioni e le attività che le aziende intendono che compiano. Ora: chi legge questi dati? Altre macchine? Oppure persone in carne ed ossa, che quindi osservano tutto, anche le fotografie scattate nell’intimità di casa degli acquirenti, o dell’ufficio, o degli ambienti scolastici che frequentano anche adolescenti?
Dietro questo tipo di robotica, “C’è sempre un gruppo di umani seduti da qualche parte, di solito in una stanza senza finestre, che fanno solo un mucchio di punta e clicca”, per valutare se “Sì, quello è un oggetto”, oppure no: “quello non è un oggetto”. Lo ha dichiarato Matt Beane, studioso e ricercatore di robotica, e del lavoro umano “dietro” di esso, nonché assistente professore presso l’Università della California.
Quindi, il percorso si articola così: Roomba scatta le foto, poi le invia ad una startup, Scale AI (con cui iRobot ha dichiarato di averne condivise più di 2 milioni); dunque Scale AI cataloga tutti i dati, tra cui anche audio e foto, attraverso il lavoro di dipendenti in carne ed ossa. I quali, pur avendo firmato accordi “severi” di riservatezza, ne hanno fatti trapelare alcuni sul web.
Ed il problema principale é ancora una volta l’inconsapevolezza del consumatore: il quale, a causa di opacità fitta fitta e densa densa di regolamenti, informazioni, clausole, condizioni, policies e la costellazione infinita di norme ed articoli sempre più a tutela del venditore che dell’acquirente, finisce per dare, in realtà ignaro, il proprio consenso. Ad essere fotografato in bagno. Per poi finire su Facebook. E chi non lo darebbe? Beh: ora lo sappiamo.
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