Life is Strange è un gioco strano, quasi quanto lo è la vita. Avete presente? Fino a un momento sembra che tutto vi stia andando bene, poi basta un attimo e… bang. Un colpo solo e ogni cosa va in pezzi. L’avventura a episodi di Dontnod Entertainment, pubblicata da Square Enix, è un’opera imprevedibile, nel bene e nel male. Il mio rapporto con essa è decisamente bizzarro, ecco. Il primo episodio mi colpì. Pochi ma semplici fattori: potenza espressiva, lirismo (specie nella colonna sonora e nella regia), un’ambientazione atipica per un videogioco e un ritmo tutto suo, capace di esulare dalla smania compulsiva all’azione tipica del nostro medium ma, almeno a tratti, anche dall’ormai canonico incedere delle neo-avventure, il genere teorizzato da Cage e canonizzato da Telltale. Non trovai tutto perfetto e non gridai al capolavoro: i ragazzi di Dontnod avevano assimilato il mood ipnotico e talune suggestioni del Donnie Darko cinematografico, ma non avevano la penna dei Telltale… e si leggeva. Inoltre, l’impianto di gameplay più solido e classico a tratti dava corpo all’opera, altre volte la azzoppava con sessioni un po’ fiacche, caratterizzate da enigmi dal gusto datato. Ma erano in fondo piccolezze, non in grado di inficiare un’esperienza fresca e piacevole. Mi piacque, ma non riuscii a capire se il meccanismo del potere della protagonista, una ragazza in grado di riavvolgere il tempo mantenendo le sue conoscenze e la sua posizione spaziale, fosse buono oppure no a livello di struttura di gioco. Consentitemi di muovermi oltre e di tornare su questo punto più avanti.
La trama di Life is Strange si infittisce, specialmente sul piano umano, emotivo.
Incuriosito e intellettualmente stimolato, attesi con trepidazione il secondo dei cinque capitoli. Ebbene, sapete cosa? Fu una delusione cocente, totale. La sceneggiatura un po’ povera, specie come qualità di scrittura, tratteggiava un pezzo di storyline di raccordo, poco pregnante e sin troppo telefonato. Stereotipi narrativi si andavano sovrapponendo, assai dolorosamente per il giocatore, a stereotipi di gameplay da vecchia avventura punta e clicca, banalizzando uno schema già appesantito di suo. Troppi passaggi insipidi, troppi cliché da bassa letteratura adolescenziale. Mi annoiai, temetti il peggio: la curiosità degli inizi aveva lasciato spazio a uno squallido vuoto di idee? Non sarebbe stata la prima volta.
Il gameplay si fa da parte, per il meglio. Puzzle per trasmettere esperienza, non per impegnare il giocatore.
A causa di questo stato d’animo, mi sono approcciato al terzo capitolo della mini-serie, dal samfisheriano nome di Chaos Theory, con un approccio diametralmente opposto: un evidente scetticismo. Ed è qui che Dontnod, ancora una volta, mi ha saputo stupire, il che, invero, è già una qualità in senso assoluto. La trama di Life is Strange si infittisce, specialmente sul piano umano, emotivo. I dialoghi rimangono un po’ cheesy e la recitazione non è da Leone d’Oro, ma qualcosa comincia a mettere tutto ciò fuori fuoco, spostando la vostra attenzione su altro. Il vostro alter ego Maxine, che appare ora più ambiguo, pur nella sua ingenuità; Chloe, ribelle per forza… anzi, per debolezza. Inoltre, il gameplay si fa da parte, per il meglio. Puzzle per trasmettere esperienza, non per impegnare il giocatore. E niente più ridicole ricerche old fashion, tranne la sequenza della colazione, con la buffa quest del latte e delle uova.
Riavvolgere il tempo, quindi alterando la propria vita e quella di chi ci è intorno: il butterfly effect. Cambia qualcosa e tutto, tutto, potrà cambiare. E mentre Dontnod comincia finalmente a giocare col nostro istinto e non solo con la nostra morale (non ha il tocco di Telltale, in questo), l’avventura comincia a spostarsi su piani più profondi e atavici, a più ampio spettro.
I dialoghi rimangono un po’ cheesy e la recitazione non è da Leone d’Oro, ma qualcosa comincia a mettere tutto ciò fuori fuoco, spostando la vostra attenzione su altro.
Ricordate che cosa vi avevo accennato? Che non ero stato in grado di sciogliere una riserva: il sistema di gameplay basato sul riavvolgimento del tempo è positivo o negativo? Vedete, il problema è che un’avventura basata su una scelta (morale, per di più) perde mordente se vi consente di vedere entrambe le conseguenze e poi scegliere quale azione adottare. Vero è che il punto resta il non sapere che cosa accadrà nel tempo medio, ma rimane il fatto che il giocatore non percepisce più quella pesantissima ineluttabilità del suo operato (Mass Effect 2 docet). Ebbene, se ciò resta vero di massima, Chaos Theory gira attorno al problema, trovando una sua via narrativa all’uso di questi dilemmi. Una via che punta meno sulla scelta morale classica, ovviando in gran parte al problema. Ma c’è di più.
Il sistema scende in profondità, e lo fa quando, verso la fine dell’episodio, il giocatore entra in una vecchia istantanea per mutare il passato, non più gli ultimi due o tre minuti della sua vita. Sulle prime, tutto sembra interessante ma normale, quasi scontato… chi non ha mai visto Ritorno al Futuro 2, del resto? Solo che, a un certo punto… SBAM. Un’immagine, uno schiaffo in faccia. Anzi, no: un pugno dritto nello stomaco. E giù i brividi, quelli forti, intensi. Resto impietrito sulla poltrona, al buio, mentre scorrono i titoli di coda.
Ora Dontnod ha davvero catturato la mia attenzione, e Life is Strange ha preso la svolta della maturità. Con queste premesse, capite bene che può succedere di tutto, ma intanto questo episodio resta un piccolo grande capolavoro. E noi ce lo godiamo. Chapeau.
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