L’intera industria del gaming portata in tribunale? Non è una scaramuccia tra colossi ma la battaglia di una nonna.
La battaglia di questa nonna coinvolge tutta l’industria del gaming. Al centro qualcosa che diverse volte si è mormorato online. Qualcosa che è stato anche al centro di varie riflessioni e di alcune azioni governative. Potrebbe essere un enorme precedente? Ma dobbiamo per forza ricorrere ai giudici e alle giurie?
Come riporta Reuters, lo scorso mese di giugno, Cynthia Jimenez, nonna tutrice legale di un nipote quattordicenne, ha provato a trascinare in tribunale nell’ordine: Epic Games, Roblox, Microsoft, Google e Nintendo. L’accusa è di “atti contrari alla legge intenzionali, negligenti, fraudolenti, volontari, immorali, ingannevoli, sconsiderati“. Una serie infinita di aggettivi negativi che sottolinerebbero quello che ha trasformato suo nipote in un drogato di videogiochi.
La situazione della signora Jimenez non è facile: suo nipote ha bisogno di trattamenti medici, counseling e di un piano di studi individualizzato. Tante volte, soprattutto in alcuni periodi del passato recente, ci siamo trovati a parlare di alcuni aspetti dei videogiochi che sembrano fatti apposta per farci spendere denaro che non abbiamo e per rimanere collegati più di quello che ragionevolezza vorrebbe.
E abbiamo anche riflettuto su come questi meccanismi diventino ancora più potenti se si abbassa l’etài. È colpa quindi di Epic, Roblox, Minecraft, Google, Nintendo se il nipote della signora gioca oltre 35 ore a settimana e si arrabbia se qualcuno prova a dirgli che è ora di spegnere?
Di certo, alcuni meccanismi sono al limite. Guardandoli da fuori, cercando di eviscerarne il senso, anche noi ci rendiamo conto che sono fatti per tenere le persone incollate allo schermo. Le ricompense quotidiane per chi fa login in un titolo piuttosto che un altro, oppure quei bonus che ti permettono di giocare senza spendere punti vita ma che poi ti costringono anche a rimanere collegato più a lungo di quanto vorresti.
Ma per la signora Jimenez la causa si è arenata: dai dati mostrati da Epic, l’account del quattordicenne è risultato attivo per un monte ore irrisorio rispetto alle accuse. In generale, i difensori hanno fatto notare come non si possa parlare di problema se un videogioco semplicemente è troppo coinvolgente.
C’è poi il dettaglio che negli Stati Uniti è stato stabilito che i videogiochi sono protetti dal Primo Emendamento, quello sulla libertà di espressione, e che non è possibile eliminare quello che può essere ritenuto poco adatto a determinate fasce d’età.
Non è solo una questione di lootbox: tanti prodotti sono orchestrati per tenere i giocatori incollati più del dovuto. Provocando trasformazioni anche nel modo di comportarsi con il resto del mondo. A nostro avviso, per quanto tante pratiche dei colossi siano discutibili e cerchino di fare cassa rapidamente, accusare un videogioco di essere troppo coinvolgente non è sostenibile. Come quelli che se la prendono con i cellulari e non con chi i cellulari dovrebbe toglierli dalle mani dei pargoli.
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