Contro Activision Blizzard spuntano nuove e scioccanti rivelazioni da parte di una hacker che sarebbe stata molestata durante un colloquio di lavoro.
Ora che è stata data la stura, le brutte storie con al centro membri ed ex-membri di Activision Blizzard si stanno moltiplicando. E noi cominciamo a sentirci tutti un po’ colpevoli per aver apprezzato negli anni i loro videogiochi mentre, negli uffici da cui questi giochi uscivano, venivano portati avanti comportamenti sessisti, molesti e violenti nei confronti delle donne.
Che ci sia ancora parecchia strada da fare perché l’informatica in generale smetta di essere un gioco per soli uomini questo è innegabile. Fino a qualche anno fa, e forse da qualche parte ancora oggi, una ragazza da sola in un negozio di informatica è la mosca bianca. Chiaramente ignorante in materia. Ovviamente da salvare da se stessa. Oggetto di scherno e di avance come se nel reame degli zero e degli uno esistessero regole che non vivono nel mondo reale.
La storia che vi raccontiamo oggi è quella di Emily Mitchell, esperta di sicurezza informatica che nel 2015, era agosto, si trovava ad una fiera e ha avuto la disgraziata idea di fermarsi allo stand di Blizzard per vedere se c’erano posizioni di lavoro aperte in linea con il suo profilo.
“Quando sei stata penetrata l’ultima volta?”
La storia di Emily Mitchell risale al 2015 quando, madre single, cercava un posto di lavoro come esperta di Cybersecurity. Allo stand di Blizzard è stata accolta da una serie di domande che definire inopportune è un eufemismo. Il tutto scatenato, e magari per qualcuno anche avallato, da una maglietta. Dalla maglietta che Mitchell indossava e su cui era scritto “Penetration Expert”.
Nel mondo della Cybersecurity, i test di penetrazione sono quelli che vengono svolti per vedere quanto i sistemi di sicurezza messi in atto resistono a un eventuale tentativo di hacking. Il becero umorismo è facile ma, in un ambiente di lavoro tra persone adulte ci si aspetterebbe di mantenere un certo decoro. E invece no.
Come raccontato dall’esperta di Cybersecurity le domande che le sono state rivolte non sono state quelle classiche sugli anni di esperienza e sui software preferiti ma su quante volte fosse stata personalmente penetrata, quando l’avesse fatto l’ultima volta, se le piacesse. Tutto perché portava una maglietta. Se state pensando che si tratti un po’ come quelle magliette vendute nei luoghi di villeggiatura con su scritto “Dalla non è un cantante è un consiglio” per qualcuno può esserlo e non è vostro diritto dare aria alla bocca: avere la facoltà di parola non significa che si può dire esattamente e sempre ciò che si vuole con la scusa “è una battuta, mamma mia!”.
La storia di Mitchell ci ha messo 2 anni a uscire quando, nel 2017, Activision Blizzard stava per finire per chiudere un accordo con Sagitta HPC, società in cui Mitchell era Chief Operating Officer. Non volendo avere a che fare con quella gentaglia, Mitchell raccontò tutto al proprio capo, Jeremy Gosney. Gosney prese allora carta e penna digitale e rispose a Blizzard raccontando per filo e per segno quello che era successo.
Ma la lettera del CEO di Sagitta HPC non si chiudeva con un no secco. Con una mossa da applausi a scena aperta Gosney diede a Blizzard la possibilità di collaborare con la sua società a tre condizioni: “Condizione numero 1: a Blizzard verrà imposta una “Tassa misoginia” del 50%, i cui ricavati verranno Donati a Women in Technology International, Girls in Tech, e Girls Who Code. Condizione numero 2: Blizzard diventerà Gold sponsor della conferenza 2017 Grace Hopper Celebration of Women in Computing. Condizione numero 3: Lettera formale di scuse da parte dei membri del team C di Blizzard indirizzata alla mia COO, insieme ad una verifica che tutti gli impiegati abbiano partecipato nel Q1 2017 a un training sulle pari opportunità e sulla molestia sessuale”.
Per mostrare che facevano sul serio, quelli di Sagitta HPC postarono la lettera anche su Twitter. Vi diciamo subito che Blizzard non aveva nessuna intenzione di sottostare alle clausole proposte da Gosney nonostante, come le chiama Mitchell, tante belle promesse. Ma una conseguenza per Activision Blizzard ci fu: gli organizzatori della conferenza Black Hat, teatro suo malgrado della violenza verbale cui era stata sottoposta Mitchell, venuto a sapere di ciò che era successo hanno promesso che la società non sarebbe mai più stata sponsor del loro evento. E infatti stando anche a quello che c’è scritto sul sito ufficiale dell’evento Black Hat, Blizzard non è più sponsor dal 2015.
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Probabilmente, per cambiare l’andazzo generale dell’industria dei videogiochi, e per industria dei videogiochi intendiamo non soltanto chi li produce ma tutto quello che ci gira intorno, occorrerebbe pungere sul vivo le società che avallano nei propri uffici, nelle trasferte e ovunque comportamenti che si configurano, e questo vale anche quando siete in una partita in multiplayer, come molestie sessuali verbali.