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NERO – la recensione

Chiudete gli occhi. Ora fate un respiro profondo e liberate la mente. State viaggiando, leggeri come l’aria: vi state allontanando da tutto ciò che vi circonda. Dalle vostre abitudini di gamer, con i suoi rituali, le sue idiosincrasie, le sue piccole grandi manie. Bravissimi. Ora tenetevi forte alla mia mano e mettete i piedi per terra. Fatto? Bene. Aprite gli occhi… Nero.
Il fatto è che siamo cresciuti, troppo e troppo in fretta. Siamo cresciuti male. Ci hanno fatto credere che il Videogioco sia sempre e solo una sfida, necessariamente ed esclusivamente una questione di abbattimento di ostacoli. Sconfiggere un nemico, artificiale o umano che sia, per affermare il superamento dei propri stessi limiti. Una volta era un high score, poi fu un achievement… o il count di headshot in un deathmatch online. Toccò in gran parte alla scena indie insegnarci di nuovo a guardare con gli occhi di un bambino, a capire l’ovvio. Che il Videogioco può essere Esperienza, che può persino non avere componenti ludiche. Il divertimento che muta in coinvolgimento, un vortice empatico di emozione, stupore, estatico rapimento. Col gameplay motore immobile di flussi cromatici, di sinfonie di note, di suoni, di stimoli sensoriali atavici.

Nero è un sonetto. Il concetto di poesia espresso da un’opera interattiva. Il mondo di Carlo Ivo Alimo Bianchi, director del gioco, è uno stato mentale prima ancora di un ambiente virtuale: è la pillola che conduce a Matrix. Ma, soprattutto, è un lucido e allo stesso tempo lisergico manifesto di amore per l’Arte. Sì, l’Arte. Quella che gli idioti e gli ignoranti reputano incompatibile con i videogiochi. Perché? Lasciate che vi conduca a questa risposta.
Tutto comincia con una creatura, un misterioso essere capace di evocare potenza e tenerezza. Egli è il nostro alter ego: lunga la sua tunica, oscuro il suo volto, enigmatici i suoi occhi. Si muove lento, anche quando corre… può azionare oggetti ed evocare una suggestiva magia, il tutto per interagire con un mondo antico e immobile, misteriosamente evocativo, sottilmente minaccioso nella sua eterea e fragile bellezza.

Il mondo di Carlo Ivo Alimo Bianchi, director del gioco, è uno stato mentale prima ancora di un ambiente virtuale: è la pillola che conduce a Matrix.

Nero, quest’originale avventura in prima persona, è opera prima di Storm In a Teacup, studio con sede in Roma ma con lo spirito saldamente ancorato alle grandi capitali della game industry globale. Nessun retrogusto provinciale, nessuna imbarazzante necessità di doverlo premiare come titolo italiano… No, Nero è un gioco indipendente dalle grandi ambizioni ma dalla altrettanto grande solidità. E lo sapete perché? Semplice: perché non imbroglia. In Nero non si scimmiottano modelli scontati di successo, non si cerca l’equazione “indie” uguale “arte” con un po’ di stile e qualche colore e forma furbetti. Come dite? Che vi sembra proprio così? Bravissimi. L’ho detto apposta, sapete? Già, perché è l’impressione che, prima di giocare, temevo di essermi fatto: un’intelligente manovra di marketing per bucare lo strato di indifferenza di un’industry anestetizzata dal denaro e farsi notare. Poi, però, ho schiacciato il pulsante “A” e ho incominciato a giocare. Ed è lì che ho capito. Tutto e subito, un’autentica epifania.

In Nero non si scimmiottano modelli scontati di successo, non si cerca l’equazione “indie” uguale “arte” con un po’ di stile e qualche colore e forma furbetti.

Nero nasce da vera ispirazione… e pertanto si fonda su una certezza così elementare da poter quasi suonare arrogante: che per creare qualcosa di bello occorrono soltanto un bel testo, delle belle immagini e un bel sound. Ecco, signori, la vera forza primordiale di questa neo-avventura: un’art direction straordinaria, nel significato più completo del termine. Tutto corre lungo binari dritti e certi, ogni elemento che danza attorno agli altri in perfetta sincronia. Il risultato è una sinestetica overdose: man mano che avanzate, gli occhi piantati un metro dentro lo schermo, le cuffie saldamente ancorate alle orecchie, il mondo del gioco entra in voi, e voi in lui. Chi è David? Che cosa gli è successo? E che cos’è Nero? Dove ci troviamo… e perché? La metafora, lo scoprirete, è potente. Il viaggio è introspettivo, prima ancora che esplorativo, e quando la storia volgerà al termine e voi comincerete a capire… qualcosa si scioglierà in voi, mentre l’abbraccio della prima luce dell’alba tenterà di dissipare il dolore, il tormento, la colpa.

la vera forza primordiale di questa neo-avventura è un’art direction straordinaria, nel significato più completo del termine.

L’Arte è la cura nel testo, perché le frasi che leggerete non sono gli squallidi tutorial di molti giochi ben più costosi, né una mera segnaletica stradale per navigatori distratti, ma versi di un canto, ferite scolpite in palpitante materia organica… bioluminescente, se preferite. Lo stesso vale per l’incanto grafico e sonoro: Nero non è lo stato dell’arte della tecnica (come potrebbe?), ma lo stato dell’arte di come applicare al meglio il proprio livello tecnico a una coerente e ispirata visione artistica. Nulla è lasciato al caso. L’autore usa il colore attinto da una tavolozza dell’anima: il modo in cui muta, la maniera in cui ci guida, col contrappunto armonico del suono, di una musica tra le migliori ascoltate di recente. Il risultato? Un rapimento.

Nero non è lo stato dell’arte della tecnica, ma lo stato dell’arte di come applicare al meglio il proprio livello tecnico a una coerente e ispirata visione artistica.

In tutto ciò, il gameplay è marginale. Ma lo dico come complimento, non perché sia mal pensato o, peggio, mal sviluppato. È che resta giustamente in posizione servente rispetto al viaggio esperienziale che è Nero, un romanzo di formazione inverso: circa 5-8 ore (dipende da come lo giocate: se siete degli idioti potete finirlo rovinandolo in meno di 3: io avrei previsto un achievement apposta) segnate da puzzle ambientali gestiti prima da soli e poi con l’aiuto di un misterioso compagno di viaggio. Pulsanti, meccanismi e un tocco di magia che non guasta per un titolo dove si gioca per interagire, ma si interagisce per vivere una storia. E se l’ospedale vi riserverà forse gli enigmi più ispirati, il viaggio finale a gameplay zero è certamente il ricordo che legherete stretto al cuore e porterete con voi più a lungo, nei cassetti più sacri della vostra memoria.
Bravissima, Storm In a Teacup, sei stata fedele al tuo nome: avevi soltanto una tazza da tè ma hai scatenato in essa una tempesta. Ora il tuo limite è solo il cielo. E forse, questa volta, il cielo sarà sia azzurro che tricolore.

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