Solo qualche mese fa tutti coloro i quali avevano il permesso di parlare per Google Stadia avevano zittito una serie di voci secondo cui il servizio si avviava alla dismissione. Ora è arrivato un annuncio ufficiale.
Ma perchè Stadia non ha mai davvero preso piede? A guardare la teoria il servizio in abbonamento streaming era in orario perfetto: non troppo tardi da dover sgomitare tra i competitor ma neanche troppo presto da dover catechizzare il pubblico.
E invece, un tonfo dietro l’altro, prima sono stati chiusi gli studi di sviluppo interni che avrebbero dovuto portare lustro alla piattaforma e ora è arrivata la conferma che tutto il servizio chiude i battenti l’anno prossimo. Cerchiamo allora di capira cosa può essere andato storto.
Google Stadia, saper fare le cose non basta
Il prossimo 18 gennaio Stadia spegnerà i server per sempre e Google ha già dichiarato che emetterà rimborsi a tutti quelli che hanno comprato videogiochi, add on o hardware. Una “decisione difficile” l’ha definita Phil Harrison, vice presidente di Stadia, con il personale che andrà ridistribuito. Non è certo bello dover dare queste notizie ma cercare di capire cosa non ha funzionato può aiutare altri futuri giovani competitor a non commettere gli stessi errori.
Un primo problema che ha reso la vita difficile a Stadia è stato sicuramente il dover avere per forza tutto un apparato di accessori per giocare. Se facciamo un confronto con Game Pass di Xbox, il servizio non chiede niente di più a chi vuole abbonarsi e anzi tanti titoli sono disponibili con i comandi touch su smartphone e tablet. Stadia pretendeva un controller apposito e il Chromecast.
A questa volontà di guadagno e di fidelizzazione forzata si era aggiunto anche il fatto che, forse, l’hype generato a tavolino non ha fatto bene alla crescita organica degli utenti. Hype e fame, quindi, e impazienza. L’impazienza di voler avere tutto e subito e di pensare di poter avere tutto e subito solo perchè ti chiami Google. Stadia doveva essere una summa di Xbox e Steam: produrre videogiochi faraonici (senza esperienza pregressa e senza fan base) e distribuire titoli di terze parti (senza clientela fidelizzata a dovere). Troppa fretta quindi hanno convinto chi gestiva Google Stadia che sarebbe bastato buttare nella mischia una valanga di titoletti insulsi sperando che qualche giocatore avrebbe abboccato per riprendere slancio. Ma non è stato così e ora ci troviamo a valutare la fine di un esperimento che tra un paio d’anni nessuno ricorderà è mai stato avviato.