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RISPONDIAMO AI LETTORI – Soldi, razzismo, social media: la violenza E i videogiochi

Questa settimana torniamo per la seconda volta a trattare il tema dei videogiochi e della violenza, in particolare tornando su ciò che è successo negli Stati Uniti con la sparatoria in un supermercato di Buffalo che è stata mandata in diretta streaming su Twitch.

A chiederci un nostro parere e ad esprimere una sua opinione è stato, come sempre in questa rubrica, uno dei nostri lettori che ci ha mandato una breve email che racchiude in realtà tutte le contraddizioni dell’industria dell’intrattenimento. Il nostro lettore si è firmato semplicemente Tanoshi e nel suo messaggio ci ha raccontato di come, da giocatore di sparatutto online, si è trovato a doversi difendere e a dover difendere tutta la categoria dei giocatori durante una discussione che si è aperta a casa sua durante un pranzo di famiglia.

RISPONDIAMO AI LETTORI – Soldi, razzismo, social media: la violenza E i videogiochi (foto: Pexels)

L’email di Tanoshi tira in ballo sia l’assurdo preconcetto che i videogiochi possono essere causa diretta di atti violenti sia però anche l’innegabile ruolo che i social media, e anche i social media che ruotano intorno ai videogiochi, hanno nel non muoversi mai per tempo. E purtroppo è la verità.

Le lacrime di coccodrillo dei social media servono a poco

Partiamo da un dato di fatto. Quando uno sviluppatore medio ha in mente un videogiocatore medio immancabilmente questo videogiocatore è un ragazzo bianco intorno ai 20 anni con tempo da buttare. Possiamo farci tutti i giri di parole che vogliamo ma, per quanti team di sviluppo cerchino incessantemente di proporre giochi innovativi dal punto di vista della demografia o aperti e inclusivi, ce ne sono il triplo che lavorano nel solco della tradizione dello stereotipo del giocatore maschio bianco e con gli occhiali, magari anche un po’ frustrato dalla vita che cerca nei videogiochi una valvola di sfogo.

RISPONDIAMO AI LETTORI – Soldi, razzismo, social media: la violenza E i videogiochi (foto: Pexels)

Probabilmente deve essere questo luogo comune che poi trasforma i videogiochi, agli occhi di tanti, in un mezzo con cui i violenti si radicalizzano (e usiamo radicalizzano nel senso che estremizzano il proprio senso di violenza a prescindere dalla categoria umana, animale o vegetale con cui poi se la prendono). E tutta questa cultura di luoghi comuni purtroppo si riverbera anche molto spesso sui social. Tornando alla strage di Buffalo che non è in alcun modo né scusabile né accettabile, dobbiamo per esempio sottolineare come Twitch sia stata la piattaforma su cui quella strage è stata mandata in onda in diretta. E non riusciamo a credere che il canale del razzista bianco che quella mattina si è alzato e ha pensato di dare la caccia ai clienti di un supermercato non avesse già altri video che esprimessero la stessa linea di pensiero. Nè possiamo credere che su Discord, la piattaforma sulla quale a quanto pare suddetto razzista bianco ha effettivamente organizzato questa strage, il forum cui partecipasse fino al momento prima avesse trattato di fertilizzanti e talee di rose.

Tanoshi nel suo messaggio ci chiede se in fondo suo zio non avesse ragione a dire che i videogiochi e tutte le “altre cose che usate tutti i giorni online” siano poi davvero la causa di tanta violenza. Purtroppo, da almeno un certo punto di vista, è così. Ma è così semplicemente perché i social e le varie community che si creano anche intorno ai videogiochi fanno spesso troppo poco (e siamo anche generosi nel dire troppo poco) per ridurre al silenzio questo genere di discorsi e non vanno a togliere agli estremisti spazio in cui trovare manforte in chi la pensa come loro. Se oltre a scusarsi pubblicamente Twitch e Discord, ma anche YouTube, e anche Facebook, e anche Steam, e anche qualunque altro social o community vi venga in mente, agissero con un monitoraggio serio dei contenuti, molto dell’odio che leggiamo online non avrebbe ragione di esistere. La vera questione è però che quell’odio fa i numeri. Parlare male e polarizzare il discorso rende alle piattaforme perchè produce traffico, il traffico produce spazi pubblicitari, gli spazi pubblicitari producono soldi. E tanti contenuti non vengono tolti non per salvaguardare la libertà di espressione ma proprio perché raccolgono talmente tanto traffico che nessuna piattaforma si sente veramente in grado di dire basta.

 

Valeria Poropat

Sono Valeria e adoro la tecnologia e la parola scritta. Dopo la maturità classica ho studiato lingue presso La Sapienza di Roma e sono specializzata in traduzione e transcreazione. A un anno e mezzo ho incontrato un Commdore 64 e a otto anni ho deciso che avrei fatto la giornalista. Alla fine, ho trovato il modo di mettere tutto insieme e ho scoperto nel mondo dell'informazione tech il mio ambiente naturale. Mi occupo di tutto ciò che è tecnologia, con una predilezione per i videogiochi e le innovazioni che sono in grado di migliorarci la vita.

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