Atteso da molti come una delle perle di questa fine generazione, The Last of Us è il nuovo lavoro di Naughty Dog. Una nuova IP, nata, quasi a sorpresa, dopo un trittico di avventure (parliamo ovviamente di Uncharted) ormai ampiamente radicate nel cuore dell’utenza Sony, tanto belle e avvinghianti da aver elevato nell’arco di meno di una decade il proprio protagonista, lo scanzonato Nathan Drake, a nuovo eroe generazionale. Archiviata la pratica dell’action game, e seguendo il recente trend “post apocalittico” che ha invaso ogni genere di media, i cagnacci malmostosi di Sony si dilettano, quindi, in un sapiente connubio tra narrazione e gameplay, confezionando quello che è forse uno dei migliori survival game mai sviluppati negli ultimi anni. Ma andiamo per gradi.
Alle soglie dell’apocalisse, ci imbattiamo in Joel, un uomo dal carattere chiuso e schivo, segnato da una serie di eventi.
Piagata da un fungo parassita chiamato Cordyceps, capace di attecchire sull’organismo umano modificandone il comportamento e regredendolo allo stato ferino, l’umanità è infine collassata.
Il tessuto sociale si è disgregato, tanto che solo pochi sparuti gruppi resistono, rintanati in poche e diroccate città. Protetti, ma al contempo controllati con il pugno di ferro dalle forze militari, gli ultimi uomini vivono consci che, probabilmente, il crepuscolo della civiltà è ormai imminente. Il mondo, regredito alla violenza primordiale che lo aveva forgiato, è dunque soggiogato dalla metodica legge della natura che, in virtù di quella marziale, lusinga la sopravvivenza degli organismi più forti. In cima alla catena alimentare, il Cordyceps ha imposto con la forza un nuovo tipo di creature. Il fungo, infatti, praticamente invincibile, si lega in modo simbiotico al suo ospite, insinuandosi nella corteccia cerebrale modificando comportamenti e aspetto fisico. I clicker, le creature nate dal connubio tra fungo e essere umano, hanno quindi soggiogato il mondo, lasciando l’uomo in attesa di una fine che, presto o tardi, arriverà.
Quello di The Last of Us è un concept quasi spiazzante, soprattutto nelle prime battute.
Barcamenato tra incarichi che gli garantiscono la sopravvivenza, e una sottesa voglia di farla finita, il protagonista gode di un carattere finemente cesellato, evidenziato da una recitazione digitale che (assieme a praticamente tutto il cast di comprimari) crea una narrazione avvincente, interessante, figlia di quello che è lo stile narrativo cinematografico cui il team ci ha abituato nel corso del suo lungo curriculum di sviluppo. Passati vent’anni dal contagio, Joel vive dunque allo sbaraglio, intento a portare avanti traffici più o meno illeciti di beni utili. Proprio nel corso di una delle sue faccende si imbatterà, tuttavia, in Ellie, una ragazzina di Boston, vittima del contagio ma in cui, tuttavia, non sono presente i segni della malattia.
In quest’ottica, anche l’esplorazione, in The Last of Us, gioca una componente fondamentale e perfettamente in linea con l’idea di trovarsi in un mondo dalle risorse limitate.
Ellie, portatrice sana del virus che ha distrutto la società, diventerà quindi dapprima un peso, poi l’arca con cui salvare eventualmente l’umanità. A Joel la missione di scortarla dalle cosiddette “Luci”, un gruppo di dissidenti al regime militare che parrebbe disporre delle risorse per sviluppare, attraverso la giovane, una cura. Partendo da Boston, passando per il Massachusetts, lo Utah e il Colorado, comincia quindi il lungo viaggio verso la speranza, un viaggio che, quasi con sapore dantesco, porterà i personaggi e il giocatore a scoprire tutti i diversi gironi dell’amoralità di cui sono capaci gli uomini che perdono la speranza.
Privo, poi, di ogni script che non sa strettamente fondamentale, il gioco tiene testa all’utente con una serie di trovate narrative e registiche da manuale, nonché grazie a un’IA (nemica e non) capace di creare situazioni di panico reale.
Questo approccio al gioco, a dir poco doveroso, ricrea un’esperienza molto simile a quella provata nei vecchi survival horror in cui il giocatore era spesso vincolato a movimenti circoscritti, e in ogni caso ragionati.
A differenza, tuttavia, dei titoli più vetusti, The Last of Us si allinea ai concept più recenti, concedendo al giocatore una cospicua libertà decisionale che permette, superate le prime ore di gioco, tante e variegate opzioni di approccio, soprattutto quando ci sono proposte le prime interazioni con il sistema di crafting. Quest’ultimo, infatti, permette la creazione di oggetti in tempo reale e ci permetterà di costruire tutta una serie di strumenti utili a tirarci fuori dai guai. In quest’ottica, anche l’esplorazione, in The Last of Us, gioca una componente fondamentale e perfettamente in linea con l’idea di trovarsi in un mondo dalle risorse limitate e, comunque, risicate. Aggirarsi per un livello, infatti, non è mai un’attività fine a sé stessa, ma permetterà il reperimento di materiali utili tanto alla creazione di armi e oggetti, quanto al potenziamento di Joel che, grazie ad apposite pillole, godrà persino di un sintetico, ma utilissimo, albero di abilità. “Survival”, in tal senso, è il termine migliore per inquadrare l’esperienza imbastita da Naughty Dog.
Come Nathan Drake si muoveva spesso in modo impacciato, limitato dalla neve, dalla folla o magari dalla calda sabbia del deserto, così Joel sarà spesso sfiacchito.
Il team, che sino ad oggi ci aveva abituato a un uso spropositato di risorse e pallottole, confeziona ora un’esperienza in cui la ponderatezza e il ragionamento vanno di pari passo con lo scorrere delle ore di gioco. L’America di The Last of Us “non è un paese per vecchi”. È un mondo che richiede competenza e attenzione, nonché un minimo di tentativi per passare da un fallimento rovinoso, a una sopravvivenza tutt’altro che scontata.
Complesso, maturo, sfaccettato, The Last of Us è un viaggio introspettivo, fatto di momenti di silenzio e riflessione. Non bastassero le dinamiche del gameplay, la cosa è chiara persino nei dialoghi, o nelle brevi ma profonde interazioni tra Joel e Ellie.
Un uomo poco addestrato, incapace di ricevere danni cospicui, così come impreciso nel mirare con le armi. Tali accortezze, solo apparentemente estetiche, si ripercuotono in realtà anche sul gameplay, concentrato tanto sulle possibilità offerte dagli ambienti, quanto sulle abilità del nostro protagonista. Ove molti esponenti del genere survival sono comunque virati verso sparatorie alla JhonWoo, qui l’esperienza proposta richiede un’attenzione meticolosa, priva delle velleità perbeniste del cinema per famiglie. Privo, poi, di ogni script che non sa strettamente fondamentale, il gioco tiene testa all’utente con una serie di trovate narrative e registiche da manuale, nonché grazie a un’IA (nemica e non) capace di creare situazioni di panico reale. L‘idea, oltre a sposarsi perfettamente con lo script di un mondo allo sbaraglio, funziona ottimamente, restituendo un piacere che pareva ormai dimenticato, se non nelle più recenti produzioni hardcore: quello della sfida. I nemici, differenziati per aspetto e routine, sono infatti immersi in ambienti che ne gratificano le capacità, dando al giocatore un costante senso di pericolo. Il tutto è poi sublimato da scelte tecniche che intesificano costantemente il senso di pericolo.
Impossibile, giocando, non percepire richiami a opere come The Walking Dead.
Non bastassero le tipiche trovate del genere (luci soffuse, rumori distanti, o sessioni al buio), anche la costruzione della telecamera, lenta e impacciata, restituisce un particolare senso d’ansia, ancora a sottolineare quanto l’uomo qualunque sia in effetti inadeguato a combattere, da solo, alle soglie dell’apocalisse.
È un mondo che richiede competenza e attenzione, nonché un minimo di tentativi per passare da un fallimento rovinoso, a una sopravvivenza tutt’altro che scontata.
Tecnicamente parlando, Naughty Dog conferma le ottime impressioni raccolte negli anni con il costante miglioramento di Uncharted, confezionando un’opera bellissima e ricercata.
Come Nathan Drake si muoveva spesso in modo impacciato, limitato dalla neve, dalla folla o magari dalla calda sabbia del deserto, così Joel sarà spesso sfiacchito, a volte piuttosto semplicemente goffo. Un inciampo, una mano su un muro, o anche solo un vestito bagnato in tempo reale sono segnali di una caratura stilistica tipica di chi è alla ricerca di un realismo non solo espressivo, ma anche fisico e contestualizzato. Partendo da una mole poligonale impressionante, sino a una definizione delle texture difficilmente rintracciabile in opere simili, Nauhty Dog confeziona un mondo di una bellezza ammaliante: un mix azzeccato tra città collassate, nature rigogliose e dettagli rugginosi e smunti la cui chiusa è una colonna sonora (e iù in generale una campionatura dei suoni) la cui immersività non ha eguali, soprattutto se vissuta attraverso impianti in alta definizione con cinque o più sorgenti sonore.
Partendo da una mole poligonale impressionante, sino a una definizione delle texture difficilmente rintracciabile in opere simili.
Sono tantissimi i media che nel corso degli anni hanno trattato il tema del crepuscolo dell’umanità e Naughty Dog sembra averli bazzicati tutti prima di mettere mano allo script del suo The Last of Us.
Impossibile, giocando, non percepire richiami a opere come The Walking Dead, Io sono Leggenda, o simili esponenti del filone post-apocalittico più recente. Coinvolgimento è la parola d’ordine di un team che, anche a fine generazione, non smette di sorprendere e incantare. In tal senso, intraprendere il viaggio per l’America del crepuscolo assieme a Joel e Ellie è un qualcosa che non dovrebbe mancare nel curriculum del videogiocatore moderno. Il climax dell’esperienza di Naughty Dog e, contemporaneamente, uno dei migliori giochi disponibile per PS3. Complesso, maturo, sfaccettato, The Last of Usè un viaggio introspettivo, fatto di momenti di silenzio e riflessione. Non bastassero le dinamiche del gameplay, la cosa è chiara persino nei dialoghi, o nelle brevi ma profonde interazioni tra Joel e Ellie. Ove il primo è più che consapevole dell’ormai imminente fine del mondo, guardando all’umanità con disprezzo, Ellie è, dal canto suo, all’oscuro di tutto ciò che era il mondo prima della piaga, guardando a quello che ha intorno con fanciullesca curiosità. Questo binomio, altro non è che l’estasi della scelta morale. Quasi paradossalmente, visto che a ben vedere l’intera esperienza scorre liscia su binari che non si possono sradicare. Eppure è impossibile non domandarsi, compiuto l’ennesimo – ma necessario – massacro, non porsi apertamente un interrogativo morale: quello che abbiamo fatto è giusto? La sopravvivenza vale la nostra umanità? Vivere… pare l’unica risposta possibile.
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