Il Videogioco sta cambiando, direbbe il vecchio Snake. Sta cambiando pelle e anima, a volte contemporaneamente… e ciò crea molti nuovi dubbi, nuovi interrogativi ai quali dare risposta. Un esempio? La neo-avventura di Telltale, un genere ibrido e recentissimo, difficile da comprendere e soprattutto valutare con i vecchi parametri di giudizio, quelli, per intenderci, basati sui classici quattro pilastri. Ricordate, no? Grafica, sonoro, giocabilità e longevità. Bene. Partiamo da qui, se non vi dispiace, ribaltiamo un po’ l’ordine delle cose… tanto a raccontarvi il gioco ci arrivo, parola di Metalmark. E anche a mettere un rassicurante numeretto che permetta ai più pigri di evitare la lettura dell’articolo (non siate timidi: sono troppo vecchio per scandalizzarmi. E poi ho comunque visto di peggio).
Ah, quanto alta è la mia stima per i Telltale Boys! Scrittori, autori, fottuti poeti del dolore e dell’abisso delle coscienze.
Grafica: Telltale realizza produzioni che, paragonate ai big title dell’Industria, sono assolutamente low cost, i Ryanair del mondo videoludico. Bello stile da fumetto, ma molto semplice. Nessun virtuosismo, nessun motore grafico next-gen. Tanta cura, però, nell’espressività. Occhi che ti fissano, che ti guardano dentro. Che ti scavano nell’anima mentre sei lì a decidere: ti salverò o no? Ti salverò o no? Occhi che possono farti star male.
Sonoro: discorso simile. Poco e buono. Una canzone sui titoli, ad accompagnarci verso il mondo reale… voci vere, genuine, voci recitate bene, che servono a farci credere a tutto ciò che viviamo, che vediamo. Orecchie per i nostri occhi, orecchie per il nostro cuore. Clem, sempre lei, quella piccola piuma sospesa su un oceano di sangue nero, denso, amaro. Ogni suo grido e siamo di nuovo Lee. La proteggevamo quando eravamo lui, ora lei protegge il suo ricordo. Poi poco altro. Qualche musica, discreta. I suoni di un mondo ostile, il lamento dei walker, poveri disgraziati senza una casa… gente come noi, direbbe qualcuno.
Giocabilità: il colpo più grande per molti di voi, lo so. Per molti colleghi della critica, gente per cui il videogioco è solo la sfida, la sfida, la sfida. Il divertimento, sempre e comunque, quasi con la paura di trovarsi tutto a un tratto adulti, ancora infilati nel pigiamino di un tempo, strappato come i pantaloni viola di Bruce Banner. Invece nulla di tutto questo, con fiera e feroce coerenza. Ah, quanto alta è la mia stima per i Telltale Boys! Scrittori, autori, fottuti poeti del dolore e dell’abisso delle coscienze. Esplorazione? Inutile. Enigmi? Inutili. Vere prove di riflessi (QTE)? Inutili. Potere alla Parola, viandanti. Conta il viaggio, e come saremo al termine di esso.
Longevità: finalmente azzerato, grazie alla falce di questi dannatissimi iconoclasti, il falso mito, ridicolo e beffardo, del videogioco che deve essere… lungo. Neanche fosse un qualche tipo di spam mail a sfondo sessuale. Struttura episodica seriale, con sessioni da due ore secche. Escamotage finalmente superflui, nessun bisogno di allungare la zuppa. Come un espresso di quelli buoni. Nero e ristretto, ma che ti lascia il gusto vero nella bocca. Quello che, poi, viene via con te.
A House Divided è un raro affresco minimalista, un piccolo gioiello fatto di gesti tanto umani quanto assurdi, di occhiate mute e disperate, che ti strappano un brandello di anima.
Questo sono, le esperienze di Telltale. Le loro opere multimediali interattive, come chiamo volutamente certi videogiochi, perché tutto sia ben chiaro. E se c’è stato un tempo in cui questa loro ricerca ci stupiva, facendoci chiedere se sarebbe continuata nella medesima direzione, oggi ciò è cosa certa. Il modello è tracciato, ed è nettamente più marcato rispetto alle origini della specie. Due episodi di questa nuova stagione di TWD, uniti a due episodi della strepitosa The Wolf Among Us, non lasciano davvero più adito a equivoci. Non siamo di fronte all’evoluzione delle avventure grafiche che furono il regno di Sierra e Lucas, ma del puro storytelling interattivo. Prendere o lasciare gente… perché il compromesso è la tomba del successo.
In “A House Divided”, Clementine fa i conti, ancora una volta, con l’infinita pochezza degli esseri umani. Homo homini lupus: l’uomo è un lupo per gli altri uomini, e tutto sarà nuovamente chiaro mentre accompagneremo in una migrazione verso nord il nuovo gruppo di sopravvissuti ai quali ci siamo aggregati al termine del primo capitolo. Le premesse, come ricorderete, non erano delle migliori, ma ad andare di male in peggio, in questo mondo, ci vuole davvero poco. Il gruppo, infatti, è reduce da una sorta di scissione, con un antagonista che incombe su di noi… sempre ammesso che costui sia realmente dalla parte del torto. E cosa dire, poi, degli altri superstiti che incontreremo lungo la via verso i monti? Gente socievole, sorridente. Possibile che…? Ma le sorprese, che non mancheranno, potrebbero spiazzarvi, ancora una volta. Non essere, insomma, le sorprese che vi aspettereste.
Questo episodio, va detto, non ha la devastante potenza del season opening, ma era prevedibile; è un segmento di raccordo che serve a distribuire le carte e a costruire il setup narrativo per un’epica che andrà a deflagrare nei prossimi capitoli. Attenzione, però: A House Divided è un raro affresco minimalista, un piccolo gioiello fatto di gesti tanto umani quanto assurdi, di occhiate mute e disperate, che ti strappano un brandello di anima, di dialoghi asciutti, autentici, veri. Mi alzo in piedi e applaudo a questo team, a queste donne e questi uomini che, un giorno, seppero dimostrare cosa volesse dire creare un’opera adulta come non lo aveva mai fatto nessuno. Mi asciugo una lacrima che, solitaria, corre giù da una guancia. Poi volto la testa e guardo verso la mia città, verso il nostro mondo. Improvvisamente, non sono più così certo che sia troppo diverso da quello post apocalittico di The Walking Dead. Chiudo la tenda e spengo la luce, lievemente a disagio. Poi mi allontano.
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