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Unravel – la recensione

Il problema di Unravel è che si tratta del classico gioco che vorresti disperatamente che ti piacesse ben più di quanto davvero ti piaccia. Guardi una schermata, ti innamori del paesaggio e delle sue atmosfere, poi ti soffermi su Yarny, questo buffo omino-gomitolo, e lo trovi semplicemente adorabile… e davvero vuoi che sia un classico, che sia un’esperienza memorabile, da imprimere a fuoco nella tua memoria di videogiocatore. Tuttavia, sfortunatamente, non è così. Ma perché? Riavvolgiamo il filo e scopriamolo insieme.

Unravel è un platform con elementi puzzle sviluppato dalla svedese Coldwood Interactive e pubblicato da Electronic Arts nel quale una buffa creaturina rossa fatta di filo, di nome Yarny, deve completare una serie di livelli per riannodare insieme le memorie di una famiglia e far quindi ricomparire le foto ricordo di un vecchio album. Trattandosi di un titolo dalla forte carica artistica, eviteremo di raccontarvi qualsiasi cosa relativa alla trama, lasciandovi il piacere di scoprirla da soli. Ma non è solo per questa ragione che, in realtà, opteremo per questa soluzione: il fatto è che, anche se all’inizio sembra abbastanza ovvio di essere di fronte alla classica opera interattiva che, più che sul gameplay tradizionalmente inteso, punta sul coinvolgimento emotivo e sulla condivisione di un’esperienza (l’intento è rivelato in modo esplicito dagli autori sin dal testo che appare a inizio partita e che inneggia all’amore), scopriamo presto che, forse neppure troppo consapevolmente, Unravel sterza più verso il terreno del videogioco classico. Ed è proprio questo, sfortunatamente, il suo tallone di Achille.

Coldwood Interactive è riuscita a fondere uno stile fotorealistico estremamente descrittivo con una vena di poetico surrealismo fanciullesco

Al primo impatto, Unravel riesce a stregarci: il lavoro svolto sul versante grafico e delle animazioni è infatti eccezionale, specialmente a livello artistico, perché Coldwood Interactive riesce a fondere uno stile fotorealistico estremamente descrittivo con una vena di poetico surrealismo fanciullesco, dove lo stridore tra l’ingenuità dell’eroe protagonista, che poi saremmo noi, e l’algida bellezza dello scenario svedese produce un ipnotico senso di rapimento sensoriale. Quando ci muoviamo, osserviamo davvero con lo sguardo di un neonato il mondo che ci circonda: ogni oggetto di vita comune appare una piccola meraviglia. Lo guardiamo, ci saltiamo sopra, lo spingiamo e tiriamo… magari ci annodiamo un pezzetto di noi. Perché poi, in realtà, questa è la peculiare meccanica di gioco: siamo un gomitolo vivente, che si srotola man mano che avanza, dovendo quindi raggiungere altri gomitoli per “rimpolpare” il nostro corpo. Strada facendo, potremo lanciare fili sui quali arrampicarci o per tirare oggetti, potremo creare ponti da attraversare o da usare come trampolini per saltare alti: noi stessi, insomma, siamo i power up che ci permetteranno di superare gli enigmi ambientali e gli ostacoli che affronteremo, cioè alcuni animaletti più o meno ostili e insidiosi. Non troveremo esseri umani o altre creature senzienti, ma questo fa parte dell’atmosfera del gioco, che spesso riesce realmente a catturare in pieno la nostra attenzione.

Il tipo di gameplay appena descritto è in effetti intelligente e anche discretamente originale, inoltre sembra sulle prime assai consono a fare da contrappunto allo svolgimento (è il caso di dirlo) di una storia delicata e minimalista, tutta introspettiva e sussurrata, volta a emozionare il giocatore e catturarlo empaticamente nelle sue soffici spire. Come anticipavo, però, il meccanismo entra molto presto in crisi: Coldwood Interactive, purtroppo, non è uno studio paragonabile a Nintendo EAD o al Sonic Team di una volta, col risultato che il gioco, a livello di puro gameplay, si rivela rapidamente frustrante e, contemporaneamente, noioso. Troppo del gameplay è lasciato in balia della meccanica trial and error, secondo la quale devi solo cercare di fare qualcosa, morire, e poi riprovare forte del tuo tentativo negativo. Oppure, peggio ancora, arrivare avanti in un livello, scoprire di esserti srotolato troppo, e dover tornare indietro per recuperare filo prezioso. Se questo è già un difetto in un gioco qualsiasi (voi amate i platform frustranti? Non credo), in Unravel è un difetto più grave, perché la frustrazione uccide il versante di pura esperienza che il titolo svedese ci offre. Il fluire del gioco si interrompe troppo spesso e troppo a lungo, e lo stato d’animo di rabbia che a tratti si impossessa di noi ci impedisce di provare quell’estatico rapimento che invece dovrebbe quasi essere la costante, in Unravel.

Troppo del gameplay è lasciato in balia della meccanica trial and error.

Se vi soffermate a rifletterci, perché dovremmo parlare di “gioco indie” in relazione a questo Unravel? C’è dietro un publisher di nome Electronic Arts, e il suo denaro si vede eccome. Guardate le schermate, osservate un video. Vi sembra forse un giochino sviluppato in cameretta da un paio di ragazzi? E poi, scusate: indipendente da chi? Il punto è un altro: hanno trasformato il senso delle parole. Ora indie significa semplicemente “gioco fortemente artistico”, quasi come se i grandi titoli ad altissimo valore di produzione non potessero essere opere d’arte. Non solo non è così, ma questa concezione porta a errori come quelli commessi in Unravel, un gioco che, se fosse stato realmente indipendente, avrebbe bellamente ignorato i dettami di mercato di un platform/puzzle per concentrarsi sul flusso emotivo di una bella storia dal bellissimo impianto artistico e, se dichiaratamente non lo fosse stato, sarebbe diventato uno Yoshi’s Woolly World, che di pretese non ne ha ma che funziona e diverte dall’inizio alla fine.

Non equivocatemi: Unravel rimane un gioco nel complesso gradevole e degno di ammirazione. Ha un suo forte magnetismo e racconta una storia che saprà conquistarvi, pertanto mi sento di consigliarlo, non fosse altro perché è un titolo dalla forte personalità, che non sembra immediatamente il clone di un altro gioco (anche rispetto a LittleBigPlanet è molto differente, già a prima vista). Resta solo il forte dispiacere nel trovarsi davanti a un ibrido che, in quanto tale, scontenterà in parte sia coloro che cercano solo un’esperienza intensa, sia quei giocatori che, invece, avrebbero voluto un solido e vasto platform costruito intorno alla meccanica dei fili introdotta da Coldwood Interactive. I veri capolavori, del resto, difficilmente nascono da un compromesso.

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