Come è cambiato il rapporto con i videogiochi in pandemia? Abbiamo giocato di più o di meno? Con chi e a che cosa?
ESA, la Entertainment Software Association americana, ogni anno raccoglie i dati dei videogiocatori americani per avere un quadro delle loro abitudini. Che non sono tanto diverse da quelle del resto del mondo occidentale.
Motivo per cui ci siamo seduti con calma e abbiamo analizzato quello che è emerso, mettendo da parte i numeri sulla quantità totale dei videogiocatori e andando a guardare invece le cifre che ci parlano del rapporto che le persone hanno o hanno sviluppato con i videogiochi nel periodo finora più buio del lockdown pandemico.
Ci sono alcune sorprese positive che vale la pena di sottolineare per riflettere anche sulla nostra percezione di cosa sia un videogioco.
Il primo dato di cui volgiamo parlare è l’età media del giocatore e della giocatrice. A differenza di quello che si pensa, l’età media negli USA (e non fatichiamo a immaginare anche qui) è di 31 anni. Ben al di là di quella fascia di teenager brufolosi e stereotipati che tutti si aspetterebbero. Il 38% ha oltre 18 anni e meno di 35 e solo un 20% è sotto i 18 anni.
E il giocatore medio non è neanche necessariamente maschio: la percentuale tra giocatori e giocatrici è pressoche identica con appena un po’ più di uomini rispetto alle donne.
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Per quello che riguarda la pandemia, i videogiochi sono stati per moltissime persone una volva di sfogo allo stress e una distrazione e i genitori anzi ritengono che sia stato più facile il passaggio alla DAD proprio grazie ai videogiochi, che sono stati anche per i più piccoli un modo per distrarsi. Oltre che per imparare: il 59% dei genitori del rapporto ESA ha infatti ammesso che i figli hanno giocato con giochi educativi, in particolare con titoli per sviluppare e rinforzare le competenze matemiatiche.
I videogiochi sono anche stati un momento in cui molti genitori, volenti o nolenti, si sono ritrovati a cercare di capire a che cosa i loro figli e le loro figlie giocano quando sono in cameretta. Ed è un qualcosa di estremamente positivo: la conoscenza del mezzo è infatti un ottimo primo passo per comprendere cosa sia adatto a che età e cominciare a toglierci di dosso quell’idea che i videogiocxhi debbano istigare comportamenti negativi.
Ma il gioco, online in particolare, ha permesso di mantenere rapporti che altrimenti si sarebbero persi. E molti hanno ammesso candidamente che continueranno a giocare online anche quando si potrà tornare a uscire senza restrizioni e tutto questo inferno sarà finito del tutto.
Creare comunità è quello che ha spinto più spesso la gente a giocare, a prescindere dalla propria condizione di abilità o disabilità, dalla razza, dall’età e da tutte quelle caratteristiche che, nella realtà, ci tengono divisi. I motivi per giocare rimangono principalmente il trovare la calma e sfuggire allo stress e, in generale, quasi tutti pensano che in un modo o nell’altro i videogiochi facciano bene all’umore.
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